Nel libro di Giorgio Vasta (2008) il caso Moro è attraversato, avvolto e metabolizzato dalla pervasiva coscienza e voce del narratore-protagonista Nimbo, lo spiazzante e acuminato «non-ragazzino» undicenne, «ideologico, concentrato e intenso», che nella Palermo del '78, insieme ai due coetanei Raggio e Volo (nomi di battaglia, come il suo), fonda una cellula terrorista emula della Brigate Rosse. Prima - e piuttosto - che una persona storica, oggetto della narrazione e referente reale del testo, Aldo Moro è qui un nome-icona derealizzato e tramutato in segno; e solo per questa via entra - con la sua vicenda, la sua stessa persona, il corpo e anzi la postura freddata - nel Tempo materiale di Vasta, che è il contrario esatto della "non fiction", per es., di Saviano - rappresentazione-denuncia della verità attraverso l’ordine e i procedimenti della finzione narrativa («Io so e ho le prove. E quindi racconto. Di queste verità», 2006) -, ed è invece un romanzo a tutti gli effetti: fiction, che trasforma i materiali storico-documentali in lingua, vale a dire in segni; lì il fuoco è sulla realtà effettiva, qui è sul testo (che in ogni caso costituisce una verità a sé, autonoma dalla realtà extratestuale). Il Tempo materiale ha il corpo e la forma della voce di un io bambino che ragiona come un adulto; una voce, voce-lingua (e prima ancora, l’ipotesi utopico-agonistica di una lingua privata, segreta, lingua-corpo, lingua-gesto, eversiva e generativa), che è evidentemente il tema essenziale del racconto, allo stesso modo in cui ne è lo strumento. È una lingua-parola doppia: originaria, edenica, innocente - nell'atto di nominare il mondo, escogitando se stessa attraverso il lessico; ed è una lingua-sistema, sintassi dello sguardo e del pensiero - quando presiede all'azione, attraverso cui i tre protagonisti si pongono in relazione col reale; quella è "infantile", questa è adulta; o piuttosto, impostata sulla grammatica pseudo adulta delle BR: lingua logica e "geometrica" - e dunque semplificata, deresponsabilizzata rispetto alla necessità del referente e della complessità così come del dolore e del vivere, della colpa e degli affetti, insomma dell'umano -, assoluta e perciò insignificante (non comunicativa e invisibile, non rilevabile), creatrice di parole come di corpi morti, feti abortiti. Ma è anche lo spazio del profondo, dell’informe indicibile e affiorante di Nimbo, in cui «Aldo Moro giace ... il suo corpicino come un bruco scuro, ... un lepidottero malinconico, larvale, vestito di nero e spettinato ... Aldo Moro intirizzito, le braccia piegate strette contro i fianchi, la testa chiusa tra le spalle, le ginocchia contro il petto...»: la figura del suo tempo materiale.

"Il linguaggio è la nostra colpa". Il tempo materiale di Giorgio Vasta

CEDOLA, Andrea
2016-01-01

Abstract

Nel libro di Giorgio Vasta (2008) il caso Moro è attraversato, avvolto e metabolizzato dalla pervasiva coscienza e voce del narratore-protagonista Nimbo, lo spiazzante e acuminato «non-ragazzino» undicenne, «ideologico, concentrato e intenso», che nella Palermo del '78, insieme ai due coetanei Raggio e Volo (nomi di battaglia, come il suo), fonda una cellula terrorista emula della Brigate Rosse. Prima - e piuttosto - che una persona storica, oggetto della narrazione e referente reale del testo, Aldo Moro è qui un nome-icona derealizzato e tramutato in segno; e solo per questa via entra - con la sua vicenda, la sua stessa persona, il corpo e anzi la postura freddata - nel Tempo materiale di Vasta, che è il contrario esatto della "non fiction", per es., di Saviano - rappresentazione-denuncia della verità attraverso l’ordine e i procedimenti della finzione narrativa («Io so e ho le prove. E quindi racconto. Di queste verità», 2006) -, ed è invece un romanzo a tutti gli effetti: fiction, che trasforma i materiali storico-documentali in lingua, vale a dire in segni; lì il fuoco è sulla realtà effettiva, qui è sul testo (che in ogni caso costituisce una verità a sé, autonoma dalla realtà extratestuale). Il Tempo materiale ha il corpo e la forma della voce di un io bambino che ragiona come un adulto; una voce, voce-lingua (e prima ancora, l’ipotesi utopico-agonistica di una lingua privata, segreta, lingua-corpo, lingua-gesto, eversiva e generativa), che è evidentemente il tema essenziale del racconto, allo stesso modo in cui ne è lo strumento. È una lingua-parola doppia: originaria, edenica, innocente - nell'atto di nominare il mondo, escogitando se stessa attraverso il lessico; ed è una lingua-sistema, sintassi dello sguardo e del pensiero - quando presiede all'azione, attraverso cui i tre protagonisti si pongono in relazione col reale; quella è "infantile", questa è adulta; o piuttosto, impostata sulla grammatica pseudo adulta delle BR: lingua logica e "geometrica" - e dunque semplificata, deresponsabilizzata rispetto alla necessità del referente e della complessità così come del dolore e del vivere, della colpa e degli affetti, insomma dell'umano -, assoluta e perciò insignificante (non comunicativa e invisibile, non rilevabile), creatrice di parole come di corpi morti, feti abortiti. Ma è anche lo spazio del profondo, dell’informe indicibile e affiorante di Nimbo, in cui «Aldo Moro giace ... il suo corpicino come un bruco scuro, ... un lepidottero malinconico, larvale, vestito di nero e spettinato ... Aldo Moro intirizzito, le braccia piegate strette contro i fianchi, la testa chiusa tra le spalle, le ginocchia contro il petto...»: la figura del suo tempo materiale.
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