L’«eterno lavoro» di Manzoni sulla lingua del romanzo ha lasciato traccia di sé non solo nel dinamismo dell’itinerario variantistico, ma anche nel fitto apparato di glosse metalinguistiche che – mimetizzato nel racconto – punteggia il testo dei Promessi sposi. Mi riferisco ai vari come si dice, vale a dire, per dir meglio, per dir così, sto per dire che tanto infastidivano il Tommaseo lettore della ventisettana; ai più espliciti rimandi diatopici (come dicono colà, come chiamano qui) o diacronici (come dicevano allora, quel che ora si direbbe); a quella particolare specie di glossa tipografica costituita dai corsivi. A sua volta oggetto di una progressiva revisione, questo apparato si presenta – nella veste finale della quarantana – come una sorta di codice cifrato, tramite il quale l’autore dà conto ai suoi venticinque lettori di alcuni aspetti della propria riflessione linguistica. Ciò vale a dire – rappresentando quel pubblico fittizio l’alter ego critico dello scrittore – che queste osservazioni, inserite con apparente nonchalance nel tessuto del romanzo, «ci forniscono indizi utili a ricostruire singoli tasselli della storia della nostra lingua» (Ornella Castellani Pollidori), ma soprattutto ci permettono (come le postille alla Crusca) «di indagare sulla sensibilità linguistica del Manzoni» (Maria Corti). Col vantaggio che in questo caso non s’intende correggere il testo, proiettandolo verso un’ulteriore redazione, ma – al contrario – definirne la fisionomia, suggellando le scelte espressive più marcate. Alcune glosse rimandano alla voce dei personaggi e dei documenti, in un gioco di citazioni che crea un filtratissimo discorso indiretto libero; altre ci presentano il Manzoni narratore metadiscorsivo che ascolta sé stesso raccontare, e continuamente commenta e corregge il proprio dettato nel suo farsi (un po’ come in quel quadro di Escher in cui la mano disegna sé stessa disegnare). Le une e le altre non hanno nulla di occasionale; così che, seguendone le linee, si ottiene un ritratto dell’autocoscienza linguistica dello scrittore còlta nel vivo della prassi romanzesca.
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Titolo: | Le glosse metalinguistiche nei «Promessi Sposi» |
Autori: | |
Data di pubblicazione: | 2008 |
Rivista: | |
Abstract: | L’«eterno lavoro» di Manzoni sulla lingua del romanzo ha lasciato traccia di sé non solo nel dinamismo dell’itinerario variantistico, ma anche nel fitto apparato di glosse metalinguistiche che – mimetizzato nel racconto – punteggia il testo dei Promessi sposi. Mi riferisco ai vari come si dice, vale a dire, per dir meglio, per dir così, sto per dire che tanto infastidivano il Tommaseo lettore della ventisettana; ai più espliciti rimandi diatopici (come dicono colà, come chiamano qui) o diacronici (come dicevano allora, quel che ora si direbbe); a quella particolare specie di glossa tipografica costituita dai corsivi. A sua volta oggetto di una progressiva revisione, questo apparato si presenta – nella veste finale della quarantana – come una sorta di codice cifrato, tramite il quale l’autore dà conto ai suoi venticinque lettori di alcuni aspetti della propria riflessione linguistica. Ciò vale a dire – rappresentando quel pubblico fittizio l’alter ego critico dello scrittore – che queste osservazioni, inserite con apparente nonchalance nel tessuto del romanzo, «ci forniscono indizi utili a ricostruire singoli tasselli della storia della nostra lingua» (Ornella Castellani Pollidori), ma soprattutto ci permettono (come le postille alla Crusca) «di indagare sulla sensibilità linguistica del Manzoni» (Maria Corti). Col vantaggio che in questo caso non s’intende correggere il testo, proiettandolo verso un’ulteriore redazione, ma – al contrario – definirne la fisionomia, suggellando le scelte espressive più marcate. Alcune glosse rimandano alla voce dei personaggi e dei documenti, in un gioco di citazioni che crea un filtratissimo discorso indiretto libero; altre ci presentano il Manzoni narratore metadiscorsivo che ascolta sé stesso raccontare, e continuamente commenta e corregge il proprio dettato nel suo farsi (un po’ come in quel quadro di Escher in cui la mano disegna sé stessa disegnare). Le une e le altre non hanno nulla di occasionale; così che, seguendone le linee, si ottiene un ritratto dell’autocoscienza linguistica dello scrittore còlta nel vivo della prassi romanzesca. |
Handle: | http://hdl.handle.net/11580/9184 |
Appare nelle tipologie: | 1.1 Articolo in rivista |