Prendendo a prestito le parole di una sincera riflessione della dottrina, sembra che sia mancata, in questi ultimi anni, una riflessione approfondita e continua sulla rieducazione in carcere, sui suoi criteri e metodi; un ragionamento, sviluppabile anche alla luce dell’evoluzione teorico-scientifica delle discipline pedagogiche che sono, poi, quelle che hanno molto da dire su percorsi e metodi educativi. Probabilmente, la lacuna meriterebbe di essere colmata, se non ci si vuole rassegnare all’idea di un’assoluta inidoneità del carcere a sortire effetti rieducativi, per inconfutabile dimostrazione. Quanta valenza l’affettività riveste nel percorso di rieducazione delle persone recluse, rappresenta uno degli obiettivi di questo lavoro. Pur restando fermamente convinta che la sanzione detentiva debba essere intesa come extrema ratio - con la conseguente drastica riduzione del suo ambito di applicazione - riprendere il cammino interrotto delle riforme del sistema penitenziario è certamente un passo necessario e ineludibile, prima di rassegnarci all’idea del carcere come istituzione inutile. L’affettività delle persone recluse rappresenta uno dei settori su cui occorre riflettere ed agire. Una valida conservazione, finanche il recupero, della rete affettiva costituisce un importante indicatore della possibilità di successo dell’opera di rieducazione del condannato. Il tema dell’affettività era già drammaticamente presente prima della pandemia, a causa del tasso di sovraffollamento carcerario e del numero di suicidi in carcere, in continuo aumento. Con ciò non si vuole porre, certo, in diretta correlazione il sovraffollamento carcerario, il numero dei suicidi e la tematica dell’affettività. È, tuttavia, verosimile affermare che l’aumento esponenziale delle persone recluse, a fronte della esiguità di risorse umane e di percorsi extramurari, renda più afflittiva la pena. L'assenza di spazio fisico sufficiente per costruire relazioni condivise e non patologiche, e l’inadeguatezza di strumenti normativi e amministrativi impediscono canali di contatto e di vicinanza con l’esterno, tali da alleviare lo stato di sofferenza. Vittime della dimensione “bilaterale” della pena sono non solo i reclusi ma anche gli affetti “non ristretti”. Con l’avvento dell’emergenza sanitaria da Covid-19, l’argomento è tornato nuovamente all’attenzione. Durante questi lunghi mesi di pandemia, i detenuti hanno vissuto la più dura delle carcerazioni, impediti in gran parte delle attività e dei contatti con l’esterno, finanche con i familiari che, potevano vedere di persona, una volta al mese e separati da una barriera di plexiglass. Nel solco di questa consapevolezza, si è intrapresa una articolata ricerca-intervento che ha visto il coinvolgimento di oltre 230 detenuti e di diversi operatori penitenziari, in quattro istituti di pena del Lazio. I dati raccolti ci consegnano un contesto costellato di numerosi disagi socio-affettivi e relazionali, a seguito delle misure sanitarie, che hanno incrinato ancor di più i rapporti familiari dei detenuti, oltre che il loro benessere psico-fisico. I tumulti avvenuti all’indomani della sospensione dei colloqui con i familiari e delle misure dei permessi premio e della semilibertà, rappresentano la punta dell’iceberg di una situazione carceraria ai limiti del collasso, che ci ha consegnato la realistica fotografia della sofferenza di chi vive recluso in pochi metri, senza spazi e con pochi diritti. Occorre una riflessione sull’opportunità di una evoluzione del concetto di quel “contatto minimo accettabile” tra persone recluse e familiari che, come ricordano alcuni atti sovranazionali, deve essere tale da favorire il mantenimento e lo sviluppo di relazioni “il più possibile normali”. È questo il momento giusto per ripensare, interamente, l’istituto delle visite familiari e, più in generale, delle relazioni affettive dei detenuti. Fuori e dentro il carcere.
Il diritto all'affettività delle persone recluse. Un progetto di riforma tra esigenze di tutela contrapposte
Grieco, Sarah
2022-01-01
Abstract
Prendendo a prestito le parole di una sincera riflessione della dottrina, sembra che sia mancata, in questi ultimi anni, una riflessione approfondita e continua sulla rieducazione in carcere, sui suoi criteri e metodi; un ragionamento, sviluppabile anche alla luce dell’evoluzione teorico-scientifica delle discipline pedagogiche che sono, poi, quelle che hanno molto da dire su percorsi e metodi educativi. Probabilmente, la lacuna meriterebbe di essere colmata, se non ci si vuole rassegnare all’idea di un’assoluta inidoneità del carcere a sortire effetti rieducativi, per inconfutabile dimostrazione. Quanta valenza l’affettività riveste nel percorso di rieducazione delle persone recluse, rappresenta uno degli obiettivi di questo lavoro. Pur restando fermamente convinta che la sanzione detentiva debba essere intesa come extrema ratio - con la conseguente drastica riduzione del suo ambito di applicazione - riprendere il cammino interrotto delle riforme del sistema penitenziario è certamente un passo necessario e ineludibile, prima di rassegnarci all’idea del carcere come istituzione inutile. L’affettività delle persone recluse rappresenta uno dei settori su cui occorre riflettere ed agire. Una valida conservazione, finanche il recupero, della rete affettiva costituisce un importante indicatore della possibilità di successo dell’opera di rieducazione del condannato. Il tema dell’affettività era già drammaticamente presente prima della pandemia, a causa del tasso di sovraffollamento carcerario e del numero di suicidi in carcere, in continuo aumento. Con ciò non si vuole porre, certo, in diretta correlazione il sovraffollamento carcerario, il numero dei suicidi e la tematica dell’affettività. È, tuttavia, verosimile affermare che l’aumento esponenziale delle persone recluse, a fronte della esiguità di risorse umane e di percorsi extramurari, renda più afflittiva la pena. L'assenza di spazio fisico sufficiente per costruire relazioni condivise e non patologiche, e l’inadeguatezza di strumenti normativi e amministrativi impediscono canali di contatto e di vicinanza con l’esterno, tali da alleviare lo stato di sofferenza. Vittime della dimensione “bilaterale” della pena sono non solo i reclusi ma anche gli affetti “non ristretti”. Con l’avvento dell’emergenza sanitaria da Covid-19, l’argomento è tornato nuovamente all’attenzione. Durante questi lunghi mesi di pandemia, i detenuti hanno vissuto la più dura delle carcerazioni, impediti in gran parte delle attività e dei contatti con l’esterno, finanche con i familiari che, potevano vedere di persona, una volta al mese e separati da una barriera di plexiglass. Nel solco di questa consapevolezza, si è intrapresa una articolata ricerca-intervento che ha visto il coinvolgimento di oltre 230 detenuti e di diversi operatori penitenziari, in quattro istituti di pena del Lazio. I dati raccolti ci consegnano un contesto costellato di numerosi disagi socio-affettivi e relazionali, a seguito delle misure sanitarie, che hanno incrinato ancor di più i rapporti familiari dei detenuti, oltre che il loro benessere psico-fisico. I tumulti avvenuti all’indomani della sospensione dei colloqui con i familiari e delle misure dei permessi premio e della semilibertà, rappresentano la punta dell’iceberg di una situazione carceraria ai limiti del collasso, che ci ha consegnato la realistica fotografia della sofferenza di chi vive recluso in pochi metri, senza spazi e con pochi diritti. Occorre una riflessione sull’opportunità di una evoluzione del concetto di quel “contatto minimo accettabile” tra persone recluse e familiari che, come ricordano alcuni atti sovranazionali, deve essere tale da favorire il mantenimento e lo sviluppo di relazioni “il più possibile normali”. È questo il momento giusto per ripensare, interamente, l’istituto delle visite familiari e, più in generale, delle relazioni affettive dei detenuti. Fuori e dentro il carcere.I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.