I luoghi delle industrie dismesse, con le loro fabbriche, ciminiere e groviglio di volumi necessari alla produzione industriale che hanno modellato l’orizzonte di numerose città, appaiono sospese nel tempo e in attesa che l’uomo trasformi, con la comprensione della dimensionalità del loro fenomeno, la percezione di indefinito, che riceve osservandoli, nel piacere dell’infinito. Questi luoghi hanno segnato il paesaggio culturale di numerose comunità. Essi hanno attratto nuclei familiari che in un legame fortemente empatico con la fabbrica, hanno dato vita ad un modus vivendi, fatto di condivisioni sociali e religiose, di usanze e tradizioni, in sintesi di un proprio genius loci. Un luogo che definisce un nuovo microcosmo in cui la relazione tra spazio pubblico e privato si conforma sull’abitare teso più verso i legami tra gli uomini, il loro vivere e soggiornare negli spazi condivisi che nella propria intimità domestica. In questo paesaggio la fabbrica è il monumento più importante, l’attrattore visivo e simbolico della riconoscibilità di una comunità e quindi dell’appartenenza ad un luogo. Le fabbriche, simbolo della rivoluzione tecnica e sociale, del prodotto e del processo e soprattutto del linguaggio figurativo delle nuove architetture dell’era industriale, oggi, dismesse, si presentano semanticamente svuotate del loro significato, come contenitori imperscrutabili. Nell’opinione comune, le architetture industriali sono spesso interpretate in modo antitetico all’espressività come valore estetico, generalmente formulato sui ritmi spaziali, sulla bellezza degli accordi compositivi, sull’armonia dei raccordi tra pieni e vuoti e fra strutture e decorazioni. Tuttavia, molte di esse presentano elevate qualità linguistiche e andrebbero affrontate soprattutto nell’ottica teleologica kantiana, secondo la quale il valore di una architettura è determinata dalla sua esigenza funzionale, ossia commisurando la forma non al piacere che ci infonde ma all’esigenza per cui è commissionata. A partire dal XX secolo, le architetture industriali sono diventate icone della modernità, perché concepite per e con la macchina, trasformandosi esse stesse in laboratori in cui sperimentare i nuovi materiali e tecniche costruttive. Molti opifici sono autentici scrigni della memoria storica dell’evoluzione costruttiva che ha caratterizzato circa due secoli della nostra storia. Questo lavoro è un viaggio nei luoghi delle industrie dismesse. Come Marco Polo, ne Le città invisibili di Italo Calvino, descrive al Kublai Kan attraverso i segni le città che incontra nel suo cammino immaginario ad oriente, questo viaggio tenta di raccogliere i segni necessari per disvelare l’interessante patrimonio culturale di cui i siti industriali dismessi sono testimoni. Un viaggio attraverso le immagini, o attraverso ciò che Heidegger definisce il “rappresentare catturante”, che aiuta ad acquisire la giusta consapevolezza del fenomeno reale. A partire dai documenti iconografici della genesi costruttiva degli opifici, espressione del linguaggio grafico dell’architettura delle industrie del XIX secolo, e attraverso le fotografie, che hanno registrato la loro condizione e l’impressione percepita attraversandole, si arriva alle nuove forme di comunicazione grafica che virtualizzano la complessità del fenomeno reale. Sono modelli 3D realistici ed immersivi, i quali stabiliscono un rapporto iconico tra la realtà e l’immagine, secondo un codice di riconoscibilità intuitivo e immediato, che simula la realtà e anche la sua dinamicità. La struttura informativa del processo di virtualizzazione è dei sistemi Geographical Information System (GIS) e Building Information System (BIM), i quali, secondo un linguaggio grafico internazionalmente riconosciuto, gestiscono e visualizzano il patrimonio “della conoscenza” materiale e immateriale dei luoghi, acquisito con complessi rilievi documentari e strumentali. I luoghi attraversati sono quelli della Slesia (Polonia) e Bulgaria, perché particolarmente coinvolti nel fenomeno dell’industrialismo che ha generato consistenti nuclei urbani e una propria identità culturale. Ma anche quelli del Lazio meridionale che tra il XIX e XX secolo hanno dato origine ad un importante distretto industriale inserito in contesti paesaggistici di elevato pregio naturalistico e storico. L’ubicazione e la ragione d’essere degli opifici laziali sembra rispondere a quanto si richiede per la “Cité industrielle” di Tony Garnier: «[…] Qui il fattore determinante è la forza del torrente; nella regione ci sono anche delle miniere, ma si può immaginarle più lontane. Il letto del torrente è sbarrato da una diga; una stazione idroelettrica distribuisce l’energia motrice, la luce il riscaldamento alle industrie e a tutta la città. La fabbrica principale si trova in pianura alla confluenza del torrente e del fiume […]». Il racconto per immagini dei luoghi delle industrie dismesse è un passo verso quel processo di valorizzazione necessario ad acquisire una maggiore consapevolezza sul loro valore architettonico, storico e culturale per evitare che essi subiscano interventi di “trasformazione” snaturanti, basati più sulla logica del profitto economico che sulla conservazione della memoria storica.

I luoghi delle industrie dismesse. GIS & HBIM per la loro valorizzazione/The places of brownfields. GIS & HBIM for their enhancement

Assunta Pelliccio
2020-01-01

Abstract

I luoghi delle industrie dismesse, con le loro fabbriche, ciminiere e groviglio di volumi necessari alla produzione industriale che hanno modellato l’orizzonte di numerose città, appaiono sospese nel tempo e in attesa che l’uomo trasformi, con la comprensione della dimensionalità del loro fenomeno, la percezione di indefinito, che riceve osservandoli, nel piacere dell’infinito. Questi luoghi hanno segnato il paesaggio culturale di numerose comunità. Essi hanno attratto nuclei familiari che in un legame fortemente empatico con la fabbrica, hanno dato vita ad un modus vivendi, fatto di condivisioni sociali e religiose, di usanze e tradizioni, in sintesi di un proprio genius loci. Un luogo che definisce un nuovo microcosmo in cui la relazione tra spazio pubblico e privato si conforma sull’abitare teso più verso i legami tra gli uomini, il loro vivere e soggiornare negli spazi condivisi che nella propria intimità domestica. In questo paesaggio la fabbrica è il monumento più importante, l’attrattore visivo e simbolico della riconoscibilità di una comunità e quindi dell’appartenenza ad un luogo. Le fabbriche, simbolo della rivoluzione tecnica e sociale, del prodotto e del processo e soprattutto del linguaggio figurativo delle nuove architetture dell’era industriale, oggi, dismesse, si presentano semanticamente svuotate del loro significato, come contenitori imperscrutabili. Nell’opinione comune, le architetture industriali sono spesso interpretate in modo antitetico all’espressività come valore estetico, generalmente formulato sui ritmi spaziali, sulla bellezza degli accordi compositivi, sull’armonia dei raccordi tra pieni e vuoti e fra strutture e decorazioni. Tuttavia, molte di esse presentano elevate qualità linguistiche e andrebbero affrontate soprattutto nell’ottica teleologica kantiana, secondo la quale il valore di una architettura è determinata dalla sua esigenza funzionale, ossia commisurando la forma non al piacere che ci infonde ma all’esigenza per cui è commissionata. A partire dal XX secolo, le architetture industriali sono diventate icone della modernità, perché concepite per e con la macchina, trasformandosi esse stesse in laboratori in cui sperimentare i nuovi materiali e tecniche costruttive. Molti opifici sono autentici scrigni della memoria storica dell’evoluzione costruttiva che ha caratterizzato circa due secoli della nostra storia. Questo lavoro è un viaggio nei luoghi delle industrie dismesse. Come Marco Polo, ne Le città invisibili di Italo Calvino, descrive al Kublai Kan attraverso i segni le città che incontra nel suo cammino immaginario ad oriente, questo viaggio tenta di raccogliere i segni necessari per disvelare l’interessante patrimonio culturale di cui i siti industriali dismessi sono testimoni. Un viaggio attraverso le immagini, o attraverso ciò che Heidegger definisce il “rappresentare catturante”, che aiuta ad acquisire la giusta consapevolezza del fenomeno reale. A partire dai documenti iconografici della genesi costruttiva degli opifici, espressione del linguaggio grafico dell’architettura delle industrie del XIX secolo, e attraverso le fotografie, che hanno registrato la loro condizione e l’impressione percepita attraversandole, si arriva alle nuove forme di comunicazione grafica che virtualizzano la complessità del fenomeno reale. Sono modelli 3D realistici ed immersivi, i quali stabiliscono un rapporto iconico tra la realtà e l’immagine, secondo un codice di riconoscibilità intuitivo e immediato, che simula la realtà e anche la sua dinamicità. La struttura informativa del processo di virtualizzazione è dei sistemi Geographical Information System (GIS) e Building Information System (BIM), i quali, secondo un linguaggio grafico internazionalmente riconosciuto, gestiscono e visualizzano il patrimonio “della conoscenza” materiale e immateriale dei luoghi, acquisito con complessi rilievi documentari e strumentali. I luoghi attraversati sono quelli della Slesia (Polonia) e Bulgaria, perché particolarmente coinvolti nel fenomeno dell’industrialismo che ha generato consistenti nuclei urbani e una propria identità culturale. Ma anche quelli del Lazio meridionale che tra il XIX e XX secolo hanno dato origine ad un importante distretto industriale inserito in contesti paesaggistici di elevato pregio naturalistico e storico. L’ubicazione e la ragione d’essere degli opifici laziali sembra rispondere a quanto si richiede per la “Cité industrielle” di Tony Garnier: «[…] Qui il fattore determinante è la forza del torrente; nella regione ci sono anche delle miniere, ma si può immaginarle più lontane. Il letto del torrente è sbarrato da una diga; una stazione idroelettrica distribuisce l’energia motrice, la luce il riscaldamento alle industrie e a tutta la città. La fabbrica principale si trova in pianura alla confluenza del torrente e del fiume […]». Il racconto per immagini dei luoghi delle industrie dismesse è un passo verso quel processo di valorizzazione necessario ad acquisire una maggiore consapevolezza sul loro valore architettonico, storico e culturale per evitare che essi subiscano interventi di “trasformazione” snaturanti, basati più sulla logica del profitto economico che sulla conservazione della memoria storica.
2020
978-88-3381-166-6
File in questo prodotto:
File Dimensione Formato  
Monografia.pdf

non disponibili

Tipologia: Documento in Post-print
Licenza: DRM non definito
Dimensione 9 MB
Formato Adobe PDF
9 MB Adobe PDF   Visualizza/Apri   Richiedi una copia

I documenti in IRIS sono protetti da copyright e tutti i diritti sono riservati, salvo diversa indicazione.

Utilizza questo identificativo per citare o creare un link a questo documento: https://hdl.handle.net/11580/76546
Citazioni
  • ???jsp.display-item.citation.pmc??? ND
  • Scopus ND
social impact