È davvero possibile odiare la musica? Probabilmente sì, vista la sua capacità di esercitare un peso dirompente sulla sfera dell’affettività umana. Prima di esaminare qualche caso specifico occorre tuttavia interrogarsi sulla natura di questo sentimento e sulle dinamiche che lo determinano: si tratta di un odio di tipo “endogeno”, legato alla predisposizione di un soggetto che vive l’esperienza di ascolto della musica come una delle tante, possibili molle scatenanti di un sentimento che già dimora – in forma latente e indifferenziata – nel suo orizzonte affettivo? O si tratta piuttosto di un odio di tipo “reattivo”, che nasce in risposta a una precisa e ben definita minaccia sonora che ci mette all’angolo, suscitando un profondo senso di frustrazione? In altre parole, la musica è solo una miccia, un coefficiente di attivazione (se non addirittura un pretesto) in grado di innescare il sentimento dell’odio o può diventare essa stessa – in quanto oggetto-musica – il bersaglio di un odio viscerale e profondo? Pur se riconducibili a dinamiche diverse, queste situazioni si sviluppano a partire da un presupposto comune che inevitabilmente diventa anche il filo conduttore di questa analisi: l’esperienza di ascolto della musica è il modo più diretto e incisivo per ascoltare se stessi. «La musica vive in me e io mi ascolto attraverso di essa», scrive Lévi-Strauss in Le cru et le cuit per spiegare come nella musica si registri un’inversione del rapporto tra mittente e ricevente, «giacché in fin dei conti è il secondo che si scopre significato dal messaggio del primo». L’immagine che abbiamo di noi stessi è dunque strettamente legata alla musica che ascoltiamo, ai valori che le attribuiamo e ai significati che le ascriviamo.

Musica, valori, identità: il riflesso dell’odio nello specchio dei suoni

PASTICCI, Susanna
2014-01-01

Abstract

È davvero possibile odiare la musica? Probabilmente sì, vista la sua capacità di esercitare un peso dirompente sulla sfera dell’affettività umana. Prima di esaminare qualche caso specifico occorre tuttavia interrogarsi sulla natura di questo sentimento e sulle dinamiche che lo determinano: si tratta di un odio di tipo “endogeno”, legato alla predisposizione di un soggetto che vive l’esperienza di ascolto della musica come una delle tante, possibili molle scatenanti di un sentimento che già dimora – in forma latente e indifferenziata – nel suo orizzonte affettivo? O si tratta piuttosto di un odio di tipo “reattivo”, che nasce in risposta a una precisa e ben definita minaccia sonora che ci mette all’angolo, suscitando un profondo senso di frustrazione? In altre parole, la musica è solo una miccia, un coefficiente di attivazione (se non addirittura un pretesto) in grado di innescare il sentimento dell’odio o può diventare essa stessa – in quanto oggetto-musica – il bersaglio di un odio viscerale e profondo? Pur se riconducibili a dinamiche diverse, queste situazioni si sviluppano a partire da un presupposto comune che inevitabilmente diventa anche il filo conduttore di questa analisi: l’esperienza di ascolto della musica è il modo più diretto e incisivo per ascoltare se stessi. «La musica vive in me e io mi ascolto attraverso di essa», scrive Lévi-Strauss in Le cru et le cuit per spiegare come nella musica si registri un’inversione del rapporto tra mittente e ricevente, «giacché in fin dei conti è il secondo che si scopre significato dal messaggio del primo». L’immagine che abbiamo di noi stessi è dunque strettamente legata alla musica che ascoltiamo, ai valori che le attribuiamo e ai significati che le ascriviamo.
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