Nell’osservare fenomenologicamente le situazioni in cui si concretizza il bene e il male appare con chiarezza che la questione del male – esattamente come quella del bene – non può essere dominata, ovvero nessuna donna e nessun uomo si trova nella condizione di poter disporre del male o di avere la perfetta completa conoscenza, come disponibilità ‘biologica’, del problema del male; inoltre, non può cancellarlo, perché costituisce, come mostra Kant con l’espressione ‘male radicale’, una dimensione non padroneggiabile; la donna e l’uomo non ne hanno la disponibilità piena e dunque non possono decidere di trattare ed archiviare ‘scientificamente’ le questioni sul male, come non possono decidere di eliminare il bene, l’interpretazione della parola, le possibilità del dialogo e la responsabilità generata dall’uso del logos nel medio dell’humanitas . Se il male non può essere oggetto di una conoscenza totale, scientificamente modellata, altrimenti lo si potrebbe evitare attraverso un intervento di ingegneria genetica di massa, allora si pone la domanda: perché nasce il diritto? Da che cosa è generato? Perché distinguiamo tra legale e giusto? Forse è prodotto dal fatto che gli esseri umani sono costituiti da un plus rispetto agli istinti del non-umano? La donna e l’uomo istituiscono le regole giuridiche perché ‘orfani’ di quell’istinto che li adegua all’ambiente circostante e che negli animali significa coincidenza con le ‘leggi trovate’ (la natura) e che evitano, nella naturalistica fisiologia programmatica, le questioni del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male, del legale e del non-legale? Ne deriva che analizzare il male e il bene, nella prospettiva del diritto, significa riflettere sull’ingiusto in quanto male come dimensione imputabile alla donna e all’uomo, la domanda allora non va posta nei termini “che cos’è il male?”, ma “che cosa significa agire male?”. Da qui la differenza tra azione ingiusta e mala azione: nella prima la condotta transita da ego ad alter e questo fa sì che non venga delimitata solo ad una valutazione etica (male), ma, nell’investire l’alterità, attiva una relazione interpersonale a statuto giuridico (giusto) che chiama ad una responsabilità non più patrimonio dell’etica.

La legge, il diritto e il criterio del bene

AVITABILE, Luisa
2011-01-01

Abstract

Nell’osservare fenomenologicamente le situazioni in cui si concretizza il bene e il male appare con chiarezza che la questione del male – esattamente come quella del bene – non può essere dominata, ovvero nessuna donna e nessun uomo si trova nella condizione di poter disporre del male o di avere la perfetta completa conoscenza, come disponibilità ‘biologica’, del problema del male; inoltre, non può cancellarlo, perché costituisce, come mostra Kant con l’espressione ‘male radicale’, una dimensione non padroneggiabile; la donna e l’uomo non ne hanno la disponibilità piena e dunque non possono decidere di trattare ed archiviare ‘scientificamente’ le questioni sul male, come non possono decidere di eliminare il bene, l’interpretazione della parola, le possibilità del dialogo e la responsabilità generata dall’uso del logos nel medio dell’humanitas . Se il male non può essere oggetto di una conoscenza totale, scientificamente modellata, altrimenti lo si potrebbe evitare attraverso un intervento di ingegneria genetica di massa, allora si pone la domanda: perché nasce il diritto? Da che cosa è generato? Perché distinguiamo tra legale e giusto? Forse è prodotto dal fatto che gli esseri umani sono costituiti da un plus rispetto agli istinti del non-umano? La donna e l’uomo istituiscono le regole giuridiche perché ‘orfani’ di quell’istinto che li adegua all’ambiente circostante e che negli animali significa coincidenza con le ‘leggi trovate’ (la natura) e che evitano, nella naturalistica fisiologia programmatica, le questioni del giusto e dell’ingiusto, del bene e del male, del legale e del non-legale? Ne deriva che analizzare il male e il bene, nella prospettiva del diritto, significa riflettere sull’ingiusto in quanto male come dimensione imputabile alla donna e all’uomo, la domanda allora non va posta nei termini “che cos’è il male?”, ma “che cosa significa agire male?”. Da qui la differenza tra azione ingiusta e mala azione: nella prima la condotta transita da ego ad alter e questo fa sì che non venga delimitata solo ad una valutazione etica (male), ma, nell’investire l’alterità, attiva una relazione interpersonale a statuto giuridico (giusto) che chiama ad una responsabilità non più patrimonio dell’etica.
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